Come sempre accadeva, anche quella domenica di fine luglio aveva preferito prendere la via dei boschi anziché stare tra i suoi compaesani a rispettare il sacrosanto riposo settimanale. E sì che quello era il giorno più atteso dell’anno, il giorno in cui si festeggiava la patrona del paese, Santa Brigida, nella chiesa più antica della Valle Averara. Era una festa assai solenne, a cui prendeva parte tutta la popolazione della vallata, richiamata lassù non solo per le cerimonie religiose, la processione al suono della banda, il solenne rituale dell’offerta dei doni alla chiesa, ma anche per la sagra popolare che ne seguiva e che teneva tutti svegli e allegri fino a tarda ora. Al Rossàl, così si chiamava per via del colore fulvo di barba e capelli, il protagonista di questa storia che si racconta ancora oggi a Santa Brigida e negli altri paesi della Valle Averara, tutto questo non interessava affatto. Per lui quello era un giorno come un altro, per nulla diverso dal resto della settimana e dell’anno. Un giorno da trascorrere nelle solite occupazioni: accudire le quattro bestie nella stalla e nel piccolo pollaio, prepararsi i pasti, aggiustare qualche attrezzo o riparare qualche struttura della sua misera casa e, a seconda della stagione, tagliare il fieno nei prati, spargere il letame o andar per boschi a fare legna per sé e strame per il letto dei suoi animali.
L’unico svago che si concedeva, e a cui non avrebbe rinunciato per niente al mondo, era la caccia, praticata in ogni periodo dell’anno, fosse o no permessa, col fucile, con le reti, gli archetti e altri marchingegni che piazzava con infallibile competenza nei luoghi più adatti per catturare uccelli, lepri e ogni altra specie di selvaggina che costituivano la base quasi esclusiva della sua alimentazione, eccezion fatta di quant’altro gli metteva a disposizione la natura nelle diverse stagioni e cioè, rane, lumache, funghi, castagne e noci, senza trascurare, ben inteso, la quotidiana polenta, il latte delle sue mucche e le uova delle sue galline. Il Rossàl abitava in una stamberga circondata da un piccolo prato e da un fitto bosco, poco distante da Carale, una contrada di Santa Brigida. Faceva una vita da eremita e non permetteva ad alcuno di avvicinarsi alla sua casa, rivolgendosi minaccioso a chiunque passasse da quelle parti, agitando per aria l’attrezzo che si trovava in quel momento per le mani e accompagnando il gesto con urlacci convulsi e incomprensibili.
Quella mattina, dunque, il Rossàl stava girovagando già da un po’ di tempo nel bosco, incurante della giornata festiva, ma per quanto prestasse attenzione a ogni minimo fruscio, non era ancora riuscito a catturare il più piccolo uccellino. Strada facendo si era premurato di controllare le sue trappole, piazzate con cura nei posti più adatti per sorprendere le prede, ma anche quelle erano tutte desolatamente vuote. Assai contrariato e in preda a un fastidioso nervosismo per l’insuccesso della battuta, correva qua e là per il bosco, brontolando a mezza voce e imprecando contro la cattiva sorte. Così intento nel suo inutile e lamentoso girovagare, non si accorse di una strana presenza che si era materializzata da qualche tempo: un cane nero, di razza incerta, che lo stava seguendo in silenzio. Quando se ne avvide, si stupì di tale imprevisto compagno e si domandò da dove fosse saltato fuori e che cosa ci facesse così attaccato alle sue calcagna.
Poi cercò di scacciarlo con male parole, ma il cane non accolse l’invito, anzi, gli si fece ancora più vicino, quasi a dimostrargli di averlo eletto a suo padrone. Gli stava un po’ davanti e un po’ dietro, scodinzolava, annusava per terra, rimaneva qualche attimo in ascolto con le orecchie tese, fiutando l’aria, proprio come fanno tutti i cani in queste situazioni. Ma il Rossàl non gradiva la sua presenza e provò di nuovo, a più riprese, a scacciarlo, lanciandogli anche un sasso. Niente da fare! Allora, per toglierlo di mezzo, o forse solo per spaventarlo, gli puntò contro il fucile, facendo l’atto di sparare: “Adès ta spare, perché so stöf che te me ègnet dré”. Il cane si bloccò di colpo, drizzò le orecchie, arruffò il pelo, ringhiò cupamente, poi aprì la bocca e parlò: “Arda Rossàl, no sta’ a tirà!”. Il Rossàl rimase a bocca aperta per la sorpresa, poi, notando che il cane lo fissava con un ghigno inquietante, fu sopraffatto dallo spavento e invece di sparare se la diede a gambe e corse senza fermarsi fino a Santa Brigida. Arrivò in paese che era quasi mezzogiorno e la gente era ancora riunita in chiesa per la messa grande. Trovò un’osteria aperta e vi entrò per bere qualcosa di forte che lo sollevasse dallo spavento. C’era solo l’oste che si meravigliò assai dell’insolita visita di quel tipo solitamente così restio a farsi vedere e notò subito i segni della paura sul suo volto angosciato. Il Rossàl ordinò un quarto di vino e lo scolò d’un fiato, poi rinfrancato alquanto raccontò la brutta avventura all’oste, il quale ovviamente non credette una sola parola dello strano racconto, immaginando che l’avventore fosse rimasto vittima di qualche scherzo di cattivo gusto o che si fosse immaginato tutto, sotto gli effetti di una cattiva bevuta. Tuttavia cercò di rincuorarlo dicendogli che forse la strana visione era dovuta alla stanchezza o alla fame.
Ma nel giro di poche ore tutto il paese era al corrente dell’insolita avventura del Rossàl, che divenne ancora di più la vittima dei lazzi di grandi e piccoli. Passarono i giorni e anche il Rossàl si convinse che forse la storia del cane nero era stata solo frutto della sua fantasia, così non ci pensò più. Ben presto tornò alle sue solite abitudini e riprese ad andare a caccia tutti i giorni, compresi quelli festivi. Un paio di mesi dopo quell’oscuro episodio, verso la fine di settembre, eccolo dunque di nuovo col fucile in spalla salire su per la montagna a caccia di camosci. Era una domenica mattina e nemmeno quella era una domenica qualsiasi, bensì il giorno della festa dell’Addolorata, altra ricorrenza speciale, dopo quella della patrona, per la comunità parrocchiale di Santa Brigida. Il Rossàl, invece, proprio come era suo solito, aveva preferito scappare dal paese in festa, disdegnando le sacre cerimonie e la conseguente sagra paesana, per andare a solitaria caccia su per il Piàcc. E questa volta la caccia fu premiata con una preda superba: un grosso camoscio abbattuto con un solo colpo da considerevole distanza, cosa che lo riempì di orgoglio e gli fece tornare il gusto per la vita a contatto diretto con la natura selvaggia.
Caricatosi l’animale in spalla, l’empio cacciatore prese la via di casa, superando non senza difficoltà, curvo sotto il pesante fardello, le costanti insidie di impervi sentieri e di intricati ammassi cespugliosi. Era ormai arrivato in vista di Santa Brigida, precisamente nel luogo chiamato il Sàcc, quando udì un forte e persistente fruscio proveniente dal fitto della boscaglia. Si fermò e si mise in ascolto. Il fruscio si fece più intenso e continuo, come se tra le piante ci fosse un animale impazzito. Stava per deporre il camoscio e imbracciare il fucile per andare a verificare l’origine di questo affannoso andirivieni, quando dal cespuglio sbucò una figura scura in cui riconobbe con raccapriccio il misterioso cane di due mesi addietro. L’aspetto dell’animale era assai mutato rispetto alla prima apparizione: al posto del cane all’apparenza normale e addirittura mansueto di allora, c’era adesso una belva furiosa che gli si avventò contro con un impeto terrificante. Quell’essere immondo con il pelo irto e arruffato, gli occhi infuocati, la bocca bavosa, la coda ripiegata tra le zampe posteriori lo incalzava sempre più da vicino, col preciso intento di azzannarlo, digrignando i denti e latrando furiosamente. Ma quello che più spaventava il Rossàl erano i versi disarticolati, i suoni gutturali quasi umani, abbozzi di parole smozzicate che l’animale emetteva assieme ai latrati, quasi a voler esprimere chissà quale sorta di infernale minaccia. A furia di indietreggiare, l’uomo era arrivato sul ciglio di un burrone che si apriva sotto il sentiero. Il pesante fardello che gli gravava le spalle lo rendeva impacciato nei movimenti e gli impediva di organizzare un’efficace difesa contro la furia dell’assalitore che invece sembrava acquistare nuovo impeto via via che l’assalito dava segni di cedimento. Impossibile lasciar cadere il camoscio per terra e imbracciare il fucile: sarebbe significato sguarnire per un attimo la difesa e lasciarsi sopraffare. Ormai il Rossàl era allo stremo delle forze, aveva raggiunto l’orlo del precipizio e la vista gli si stava annebbiando per la fatica. Ancora un attimo e sarebbe stato sbranato da quella furia scatenata o sarebbe precipitato nel vuoto. Senza più speranza, in un estremo tentativo di difesa, mentre il cane stava ormai per agguantarlo, raccolse tutte le sue forze e lasciò partire un poderoso calcio, riuscendo a colpire in pieno l’animale che reagì, emettendo lamentosi guaiti e compiendo una serie di folli piroette su se stesso che smossero il terreno in forma di cerchio.
Ma nello sferrare il calcio il Rossàl aveva perso l’equilibrio e così precipitò nel burrone. Nello stesso tempo la strada franò dietro di lui ed egli venne trascinato in basso in un’accozzaglia di terriccio, sassi, alberi sradicati che lo travolsero sommergendolo sotto il loro peso. Si riebbe dopo qualche tempo. Era ferito in varie parti del corpo, sanguinava abbondantemente ed era tutto indolenzito, ma il camoscio che egli non aveva mai lasciato, era caduto con lui riparandolo in parte dai detriti più pesanti. Malgrado le ferite e lo spavento per il terribile incontro di poco prima, il Rossàl cercò di mettersi in piedi e di ritornare sul sentiero, ma si sentiva troppo debole per il sangue versato e la fatica lo opprimeva, così, dopo un ultimo inutile sforzo, dovette desistere e non poté fare altro che iniziare a gridare, chiedendo aiuto. Lo trovarono il giorno dopo alcuni cacciatori di Santa Brigida, richiamati dai suoi ormai flebili lamenti. Non senza difficoltà, lo riportarono sul sentiero, poi lo adagiarono su una barella di rami intrecciati e presero la via del ritorno. Ma il Rossàl non rivide più il suo paese. Spirò lungo la strada, non prima però di essere riuscito a raccontare ai soccorritori, tra lacrime e lamenti, la sua tremenda avventura, assicurando che quel dannato cane altri non era se non il Diavolo in persona che era venuto a prenderlo.
Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001