In un’imprecisata valle bergamasca viveva un ragazzo di nome Giovannino o, per meglio dire, Gioanì. Era il figlio unico di una povera vedova che aveva perduto il marito, travolto da una catasta di legname mentre era intento al difficile e faticoso lavoro della fluitazione dei tronchi, lungo l’impetuoso corso del fiume. Mamma e figliolo abitavano in una casupola alquanto malandata, situata fuori paese, in prossimità di una verde valletta circondata da un fitto bosco di abeti. Questo era il regno del Gioanì che fin da piccolo aveva imparato ad amare la natura, adeguandosi ai suoi ritmi solenni e immutabili. Fattosi più grandicello, aveva trovato nella natura il sostentamento per sé e per la povera madre, alternando le cure del suo gregge allo stesso lavoro del boscaiolo che era stato del padre: una vita monotona, senza prospettive, se non quella di trovare, in paese o nel circondario, una ragazza semplice e operosa, disposta a condividere la fatica di una vita assai avara di consolazioni. Unico svago, qualche serata trascorsa nella piccola osteria del paese, a giocare a carte o alla morra con altri giovanotti, bere vino senza eccedere, al suono sommesso di una fisarmonica. Fu in una di queste serate che prese l’avvio la vicenda destinata a mutare per sempre la sua vita. Tra gli avventori nacque un’accesa discussione su un argomento assai di moda a quei tempi: l’esistenza di fantasmi, streghe e folletti che popolavano i boschi e le montagne della zona, terrorizzando nelle ore notturne quanti avevano la malaugurata idea di andarsene in giro da soli, magari con la coscienza non proprio tranquilla.
Il Gioanì, che in tutta la sua vita trascorsa a stretto contatto con la natura aveva imparato ad amarla e a considerarla come una sorella, sosteneva con forza di non aver mai incontrato nessuno di quegli strani esseri che avrebbero dovuto spaventarlo a morte ed era il più acceso sostenitore della loro inesistenza. “Töte bale di nos vècc chi ga cüntàa sö di storie de pura ai tusècc per tegnéi quècc! – andava dicendo con convinzione – Cos’éla pò sta pura? Me so egnì che g’o pura de nig e de négott!”. Dai e poi dai, la discussione si accese e il Gioanì si trovò ben presto solo a sostenere la propria tesi. E così ebbe contro tutti gli avventori. “Se davvero non hai paura – lo sfidò a un certo punto uno dei più accesi sostenitori della tesi contraria – perché non ce lo dimostri coi fatti? Scommettiamo che non sei capace di passare un’intera notte da solo in cima alla montagna?”. “Accetto la scommessa – fece il Gioanì – anzi, ci vado questa notte stessa e, per dimostrarvelo, quando arriverò in cima al vallone accenderò un falò e lo terrò acceso fino all’alba, così capirete che sono lassù, mentre voi sarete qui a farvela addosso!”. La posta della scommessa dovette essere alquanto alta, ma noi non la conosciamo. È certo invece che poco dopo il Gioanì, vuotato d’un fiato l’ultimo bicchiere, uscì dall’osteria accompagnato dai lazzi degli avventori e, avvolto nel suo scuro pastrano con in testa un cappellaccio dello stesso colore, si inoltrò nella notte, facendosi strada con la fioca luce di una lanterna a olio. Il cielo sereno di quella notte di fine inverno era un tripudio di stelle, le bianche vette delle montagne erano rischiarate dalla luce diafana della luna piena. L’aria fredda e umida sciolse in fretta tutti i fumi dell’alcol nel Gioanì che cominciò a provare una certa uggia per l’incertezza dell’impresa, avviata senza un minimo di riflessione, e si pentì di aver accettato la scommessa.
Per non far caso alle mostruose figure che gli alberi e gli spuntoni di roccia disegnavano intorno a lui per effetto della luce lunare, prese a salire verso la vetta quasi di corsa. Ben presto il suo respiro si fece veloce e ansimante, il suo corpo si riscaldò e cominciò a sudare leggermente. Ormai badava solo alla salita e provava un senso di soddisfazione nel rendersi conto della facilità con cui percorreva l’erto e stretto sentiero che lo stava portando in fretta verso la meta prescelta. Camminava da quasi due ore, ne ebbe conferma dai deboli rintocchi della mezzanotte provenienti dal campanile del suo paese. Individuata un’altura aperta sulla vallata, che pareva adatta a segnalare la sua presenza, decise di fermarsi, accatastò un piccolo fascio di legna secca che aveva raccolto nell’ultimo tratto di strada, poi se ne procurò dell’altra vagando tra le sterpaglie secche dei dintorni. Ci mise un bel po’ ad attizzare il fuoco, ma alla fine la fiamma si alzò, calda e scoppiettante. Vi dispose tutta la legna raccolta e si sedette su una pietra a gustarsi il tepore che placava in fretta il freddo pungente subentrato al sudore della salita. La fatica della lunga camminata, l’ora tarda e il caldo della fiamma ebbero ben presto il sopravvento sul Gioanì che si appisolò. Doveva essere passata almeno un’ora, quando gli parve di udire un debole suono di flauto. Aprì gli occhi e alla tenue fiamma che ancora avvolgeva la sterpaglia, scorse tre ragazze, avvolte in delicati indumenti colorati. Quella vestita di rosso, che gli parve la più graziosa, suonava il flauto e guidava le compagne in una leggera danza attorno al falò; quando passava davanti a lui, gli sorrideva, dolce e invitante. La scena andò avanti per alcuni minuti, poi, finita la melodia, le tre fanciulle svanirono nel buio, non prima però di aver rivolto un cortese inchino al giovane pastore.
Così almeno parve al Gioanì, perché dopo la visione si addormentò di nuovo e si svegliò quando ormai il sole stava spuntando dietro le montagne innevate. Il ricordo della visione gli si presentò subito nitido in ogni particolare. Non poteva essere stato un sogno. Tornato a casa, riprese le sue abituali occupazioni, ma l’immagine della ragazza non lo lasciava un minuto, il volto allegro, gli occhi vivaci, il sorriso pieno di promesse di quella leggiadra creatura erano stampati nella sua mente e riempivano le sue giornate e i suoi sogni. Così si decise a raccontare l’avventura alla madre, la quale, dopo averci riflettuto a lungo gli propose: “Perché non torni lassù una di queste notti? Forse la tua misteriosa ragazza potrebbe tornare. E se così fosse, attento a non fartela scappare, invitala a ballare, conoscila portala a casa”. Il Gioanì seguì il consiglio materno e quella notte stessa tornò sulla montagna, accese il falò e rimase in attesa. Ed ecco che, passata la mezzanotte, udì il suono del flauto che si avvicinava veloce e poi apparvero le tre ragazze che si misero a danzare attorno al fuoco. Allora si alzò e rivolse il saluto a quella che suonava il flauto. Questa si fermò, smise di suonare e gli sorrise. Poi passò il flauto alla compagna che la seguiva e porse il braccio al giovane e un po’ impacciato cavaliere, il quale dopo aver fatto un grande inchino la guidò in una delicata danza, a cui ne seguirono molte altre, finché i due giovani, dimentichi di tutto, si scoprirono follemente innamorati. E così, al mattino, quando le due damigelle se ne furono andate, la fanciulla rosso vestita non esitò a seguire il Gioanì fino a casa sua.
La storia potrebbe anche finire qui, ma per completezza d’informazione resta da dire che i due innamorati coronarono ben presto il loro sogno con un bel matrimonio a cui seguirono anni d’amore e uno stuolo di bambini. E vissero felici e contenti. Questo dicono i più, ma qualcuno, a cui sembra dispiacere che possano esistere delle persone pienamente felici, ha insinuato un’altra conclusione. Si mormora, infatti, che la felicità del Gioanì e della sua amata sia durata solo qualche anno, poi un brutto giorno, durante una vivace discussione, il marito avrebbe osato colpire con uno schiaffo la bella moglie. Non l’avesse mai fatto! La donna, indignata, se ne scappò di casa, corse su per la montagna e sparì per sempre. Lui, incapace di sopportare la sua mancanza e in preda al rimorso per averla offesa, la cercò a lungo per ogni dove, trascorrendo intere notti sul luogo dove l’aveva incontrata. Tutto inutile. E una notte, durante una della tante affannose ricerche, precipitò in un burrone e morì, invocando il nome dell’amata.
Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001