Tanti anni fa in una grotta sul monte Secco, in quel di Piazzatorre, viveva un tipo assai strano, che non si faceva mai vedere in paese, ma passava le sue giornate a lavorare nel bosco, tagliando la legna ed allevando qualche capra da cui ricavava quel poco latte che gli serviva per tenersi in vita. Era vestito rozzamente, con una grossa maglia di lana grezza, dei pantaloni di fustagno pieni di toppe e un paio di zoccoli chiodati da cui spuntavano le dita dei piedi malamente coperte da calzini lisi e bucati da più parti. Particolare curioso ed inspiegabile del suo abbigliamento erano i cappellacci, ben sette, che teneva sempre calcati in testa, uno sopra l’altro, e di cui non si separava mai, forse nemmeno quando si coricava sullo sporco pagliericcio che gli fungeva da letto. Un giorno accadde che un cacciatore di Piazzatorre cercasse il suo cane che si era perso sulla montagna durante una lunga e infruttuosa battuta di caccia alla lepre. Calata la sera e fattosi buio, il cacciatore non poté proseguire le ricerche e decise di passare la notte al riparo di una vecchia e sgangherata baita che era già stata il suo provvidenziale rifugio qualche anno prima, durante un furioso temporale.
Benché stanco per la lunga camminata, ebbe difficoltà a prendere sonno, sia perché si era dovuto sdraiare sul freddo e nudo pavimento della baita, ma soprattutto perché era preoccupato per il suo cane, un segugio dal pelo fulvo e dagli occhi cristallini, sempre in movimento e in cerca di qualche avventura, che tuttavia non si era mai allontanato dal suo padrone più di qualche ora, tornando sempre alla sua cuccia, specie quando c’era da assaporare qualche gustoso bocconcino che il padrone gli propinava come premio dei suoi successi venatori. Finalmente la stanchezza ebbe il sopravvento e il cacciatore riuscì ad addormentarsi, ma nel colmo della notte si svegliò di soprassalto: gli era parso di udire in lontananza il guaito disperato del suo cane, il richiamo lamentoso dell’animale in pericolo. Si alzò, uscì dalla baita, tese l’orecchio e rimase in ascolto, ma nessun rumore proveniva dal bosco, se non il flebile scroscio di un ruscello e il richiamo rauco e lugubre di una civetta, ripetuto stancamente ad intervalli regolari. Trascorso parecchio tempo e convintosi di aver sognato, rientrò nella baita, ma non ci fu verso di riaddormentarsi. Così, ai primi chiarori dell’alba, lasciò il suo rifugio notturno e si inoltrò nel bosco per riprendere le ricerche del cane. A un certo punto, dopo un paio d’ore di inutile girovagare senza una meta precisa, si ricordò di quello strano personaggio dai sette cappelli che gli era capitato qualche rara volta di intravedere ai margini del bosco e che al suo apparire si era affrettato a nascondersi nel fitto degli alberi. La dimora di quel tipo così poco socievole doveva essere in quella zona e forse il cane, stanco e affamato, aveva trovato ospitalità presso di lui. Non si sbagliava: l’uomo dai sette cappelli viveva proprio da quelle parti. Ma sarebbe stato meglio che vivesse migliaia di chilometri più lontano, perché il cacciatore lo incontrò, finalmente, nel fitto del bosco, appena dietro una siepe di arbusti e rovi.
E si trattò di un incontro drammatico. La scena che gli si presentò era terrificante: l’uomo dai sette cappelli, tutto sporco di sangue, era seduto a cavalcioni di un grosso tronco posto all’ingresso della grotta e con un lungo coltellaccio stava facendo a pezzi un animale, divorandone avidamente la carne, cruda e sanguinante. Ci volle solo un attimo al cacciatore per accorgersi che la povera preda dell’uomo dai sette cappelli era un cane, il suo fido segugio! Fuori di sé dal dolore e dalla rabbia, si slanciò contro quell’individuo, con furia omicida, ma l’altro si alzò di scatto e gli si rivoltò contro, minaccioso, brandendo il coltello e cercando di colpirlo. Per fortuna il primo fendente andò a vuoto e ciò consentì al cacciatore di portarsi momentaneamente fuori tiro, ma poiché l’altro continuava a rincorrerlo, intenzionato ad ammazzarlo, dovette darsela a gambe e non si fermò finché non ebbe raggiunto il limitare del bosco. Poi, ormai in salvo, riprese mestamente la via di casa, con l’animo angosciato per quanto era successo a lui e al suo povero cane. A Piazzatorre però la sua storia non fu creduta e tutti ritenevano che la macabra visione che il cacciatore continuava a descrivere nei minimi particolari fosse solo frutto della sua fantasia, magari innaffiata con qualche bicchiere di troppo. Gli amici dell’osteria, con i quali trascorreva le serate a giocare a carte, iniziarono a prendersi gioco di lui e a trattarlo da visionario.
Quanto al cane, che non aveva ovviamente più fatto ritorno, cercavano di tranquillizzarne il proprietario sostenendo che si era preso una vacanza avventurosa e che avrebbe ben presto fatto ritorno a casa, una volta spenti i bollori della scappatella con qualche cagnetta dei paesi vicini. Così, col passare dei giorni anche il cacciatore finì per convincersi di essersi sognato tutto e tornò a nutrire una pur timida speranza nel ritorno del suo cane. Ma avvicinandosi la brutta stagione, uno di quegli amici che avevano tanto deriso il malcapitato cacciatore, forse il più incredulo, si trovò un giorno, sul far del tramonto, a passare dalle parti del monte Secco. Era salito fin lassù in cerca di funghi che in autunno crescono abbondanti in quella zona. Inoltratosi nel bosco, giunse senza saperlo vicino alla grotta dell’uomo dai sette cappelli. Alzato lo sguardo, rimase impietrito dalla scena che apparve ai suoi occhi: l’uomo dai sette cappelli era lì, davanti a lui, e cercava di tenere a bada tre lupi famelici che ringhiando sinistramente stavano dilaniando il cadavere di un povero uomo. L’orribile spettacolo paralizzò il cercatore di funghi che per un attimo si sentì perduto. Per fortuna la sua presenza passò inosservata, così, con grande cautela, riuscì ad allontanarsi e a darsi a precipitosa fuga verso casa.
Gli ci volle parecchio tempo per riprendere l’orientamento; ormai si era fatto buio e procedeva a tentoni nel fitto della boscaglia. La luna filtrava tra gli alberi e proiettava sul terreno ombre terrificanti di mostri che sembravano ghermirlo con poderose zampe munite di artigli affilati e il vento contribuiva a questo gioco spaventoso, rendendo i fantasmi del bosco più sinuosi ed angoscianti. Più morto che vivo, arrivò in paese, chiamò alcuni amici, tra cui il cacciatore che aveva perso il cane, raccontò loro la sua terribile esperienza e li convinse ad organizzare una battuta di caccia al mostro del monte Secco. Con precauzione e in preda a una sorda paura, il mattino seguente il gruppetto raggiunse le pendici della montagna, penetrò nel bosco e arrivò fino alla grotta. All’esterno, seduto sul tronco dell’albero, c’era l’uomo dai sette cappelli che stava consumando il suo orrido pasto con i resti umani lasciati dalle tre belve, le quali, ormai sazie, sonnecchiavano sdraiate ai suoi piedi. Una nutrita scarica di fucilate squarciò il silenzio della montagna. Raggiunto da numerosi colpi, l’uomo dai sette cappelli ebbe ancora la forza di alzarsi, rimase un attimo in piedi, con uno sguardo dolorosamente stupito, poi stramazzò al suolo senza un lamento. Anche i lupi, colpiti a morte nel sonno, si accasciarono in una pozza di sangue. Poi, con grande sorpresa dei cacciatori, l’uomo e le bestie scomparvero sotto terra senza lasciare la minima traccia della loro presenza. I cacciatori, dopo aver a lungo, ma inutilmente cercato qualche indizio che rivelasse l’identità di quel misterioso individuo, se ne tornarono a Piazzatorre dove raccontarono l’accaduto. Da allora questa storia viene sempre narrata dai nonni ai loro nipotini nelle lunghe serate d’inverno, e anche adesso che la televisione ha cancellato il gusto di ascoltare le storie, c’è ancora qualche bambino che di notte sogna brutti incontri con l’uomo dai sette cappelli.
Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001